“Ha senso politico continuare a reggere con pazienza ciò che si è fatto rigido e pesante come un macigno e che impedisce la fluidità di pratiche politiche nuove?”
Questa domanda rispecchia in modo limpido la situazione attuale del nostro collettivo. E la nostra risposta è certamente no. Scriviamo quindi questo testo per chiudere in modo pubblico e chiaro l’esperienza di autart nella forma e nelle persone in cui lo abbiamo conosciuto finora.
Negli ultimi mesi all’interno del collettivo sono emerse con una forza distruttiva problematiche forse esistenti da sempre, le quali erano semplicemente rimaste sul fondo, coperte da quella dolce sabbia trasportata dalle correnti gioiose del fare condiviso, della pratica comune, delle discussioni, delle chiacchiere e delle birre bevute insieme. C’è stato molto affetto in autart, magari stupidamente ingiustificato, ma per chi si è lasciato attraversare da questa leggera brezza era chiaro che non servivano motivi, perché era quella silenziosa complicità, quel qualcosa di seducente e trascinante che dava senso alla formula “un collettivo (organismo) è qualcosa di più della somma delle sue parti (aggregato)”. Questa eccedenza non era solo una questione affettiva, era anche tutto quel complesso divenire che ha caratterizzato e modellato il nostro comune, a partire dai desideri che riecheggiavano tra i nostri corpi e che hanno catalizzato le nostre energie, rigenerando la voglia dell’altro. Le spinte e le motivazioni reciproche, la contaminazione di idee e pratiche, quella tensione necessaria, ma anche necessariamente silenziosa, ci hanno permesso di fare le cose insieme, di stare insieme, di cercarci. Era un gioco creato da tutta una piccola serie di riti sociali, di narrazioni e autonarrazioni, di momenti conviviali, di parole dette e taciute, una fittissima trama di relazioni soggettivanti che hanno nel tempo creato amicizie e svelato amaramente inevitabili rapporti di forza e di potere, complessi da elaborare, ma che hanno permesso di crescere e di capirsi insieme.
Abbiamo capito che questo gioco non è ritrovabile nella realizzazione delle pratiche, ma si costruisce nei metodi adottati al momento della sperimentazione delle pratiche stesse. Tuttavia esso appartiene a quel lavoro trasversale e invisibile costituito dal “non detto”. Infatti attraverso le caratteristiche dei singoli si definivano i ruoli espliciti e quelli non espliciti al gruppo. Il collettivo costruiva al contempo due progetti, quello più o meno chiaro a tutti, “il detto”, ovvero la progettualità, l’espressione e le relazioni esterne; e quello chiaro a nessuno, il “non detto”, teso a smantellare il detto. Quanto è dirompente la forza del non detto solo la sua manifestazione lo ha rilevato, sfociando con l’allontanamento di una parte del gruppo, con la fine o con un nuovo inizio. Il non detto ha tenuto gelosamente a sé tutte le relazioni, i rapporti di forza, la gestione del potere, tutto il lavoro che il collettivo ha fatto verso il suo interno.
Autart a volte ha gettato su questo lato uno sguardo troppo distratto e poco consapevole, prendendosene cura in modo discontinuo, anche se ci si dichiarava “presi bene”, anche se si credeva di condividere desideri e necessità, non sono mancate incomprensioni e difficoltà nel vivere l’intreccio relazionale, pervaso da dinamiche emotive difficili da scardinare, interpretare ed esplicitare, per cui al sentirsi ‘parte di’ coesisteva talvolta un sentimento di distacco, troppo spesso relegato nel non detto. Col tempo si è preferito, a favore di altre priorità, accrescere la distanza tra di noi, sacrificando l’importanza del momento della restituzione del gruppo, quello spazio messo a disposizione da chi vive il collettivo perché possa prendersi il tempo necessario di riflettere sulle dinamiche di presenza, di trasformazione dei rapporti e di come la progettualità possa svilupparsi a seconda di questa trasformazione. Quando il collettivo si è basato esclusivamente sulla sua prassi, non preoccupandosi di rendere espliciti i rapporti di potere, tutto è diventato statico, macchinoso, arrugginito e in quei momenti sembrava che niente, se non un’azione autoritaria, avrebbe potuto risolvere l’algoritmo. Autart ha cercato di basarsi sul consenso esplicito, ma nel lungo periodo ha congelato i ruoli, da quel momento in poi si è spesso frainteso la necessità di legittimare una qualsivoglia decisione attraverso il peso di una assenza o una presenza, quando prima la fiducia e l’interesse spontaneo creavano da sole l’affezione verso il percorso.
In questo momento, prevale la distanza, di opinioni-posizioni-desideri ma anche affettiva, o perché non è stata coltivata nel tempo o perché è mancata da subito l’affinità necessaria. Sebbene ci siano stati differenti ritmi e tempi, e sebbene ognuno avesse una propria personale visione di cosa significasse per lei/lui far parte del collettivo, la distanza non è emersa dalla differenza ma dal sentire comune, perché come un macigno questo rapporto aveva iniziato a pesare-limitare-soffocare la libertà delle persone.
Ora vediamo sfilacciata quella complessa rete costituitasi nel tempo, fatta di desideri e necessità, dove l’eterogeneità è stata considerata un punto di forza, intreccio di partenza per una pratica di condivisione che si nutriva della differenza, riconoscendo l’alterità come una ricchezza e una possibilità di confronto contaminatrice. In molti abbiamo considerato autart come un’esperienza, un percorso di crescita, uno stare insieme godibile, vivo e corporeo, incrostato di materia, quasi sentimentale nell’accezione più delicata del termine. Uno spazio di profondo respiro in cui rispettare il tempo singolare di ciascuno e dove scambiarsi rispetto e autorità vicendevolmente, lasciando lo spazio necessario alla propria libertà individuale di sbagliare, a patto che nell’errore germogliasse la crescita dell’esperienza e del confronto e non, al contrario, che la libertà individuale diventasse limite della libertà dell’altro.
Negli ultimi mesi le varie divergenze sono state ancor più esplicitate e acuite da quella morsa creata dall’odiosa dimensione temporale dell’urgenza, la quale pone con una declinazione determinista obiettivi che sconfinano spesso in pericolose ideologie, calpestando penosamente relazioni e persone. Una dimensione in cui il momento supera d’importanza la progettualità.
Ci siamo accorti presto che queste modalità non riescono a sottrarsi al capitalismo ma ne assumono spesso le forme subdole e perverse di un tempo troppo veloce e distratto in cui è difficile accorgersi dell’altro. In questi momenti si creano inevitabilmente dei meccanismi gerarchici che portano i singoli soggetti ad assumere posizioni di leadership, di comando e quindi di oppressione verso l’altro al fine di raggiungere l’obiettivo designato, portando frustrazione, dimenticando il desiderio disinteressato e trascurando l’amicizia. Abbiamo provato a sottrarci ad una scansione della nostra vita di questo tipo, consapevoli che non è semplice. A volte ci siamo riusciti e sono stati i momenti di maggior piacere. Tuttavia tra picchi di entusiasmo e foga e picchi di demotivazione e indolente accettazione, crescevano le incomprensioni e le insofferenze. In ogni caso non abbiamo voluto che autart fosse un’entità astratta, disincarnata, un marchio o un contenitore di facciata per presentare le pratiche che col tempo abbiamo fatto nostre, o uno strumento per aquisire un certo peso politico o per porci sulla cresta dell’onda nelle mobilitazioni. Perché anche questa è una modalità capitalista.
In quanto studenti abbiamo avuto a cuore in questi anni le problematiche accademiche e universitarie, cercando di soddisfare innanzitutto desideri e necessità personali cresciute nelle lacune di un sistema scolastico disastroso, mantenendo viva la consapevolezza di non avere alcuna verità da rivelare o pratica da consegnare, né livelli di consapevolezza superiori da diffondere e far pesare. Quando ci siamo incontrati abbiamo percepito un disagio a cui non eravamo in grado di dare un senso preciso che abbiamo provato a costruire insieme. Adesso possiamo dire che quel senso è stato, ed è la nostra esperienza, che potremmo raccontare, ognuno a suo modo, ma nel racconto inevitabilmente qualcosa verrà perso. Si perde tutto quello che non è traducibile, che può essere solo espresso dicendo che eravamo corpo, desideri, sangue e intelligenza attiva in comunità. Siamo cresciuti attraverso la creazione di zone di autonomia didattica che fossero per tutti gli studenti ma principalmente per noi stessi, occasioni per rielaborare la propria formazione e le proprie intenzioni cercando di valorizzare quelle differenze che abbiamo esplorato con difficoltà. Abbiamo organizzato e praticato percorsi di autoformazione cercando di offrire a coloro che si sono imbattuti in autart, anche solo per un attimo, un’esperienza diversa, lavorando insieme con pratiche ludiche e curiose, che cercassero di forzare un tipo di sapere frontale, parcellizzato e omologato, strettamente derivante dall’impostazione economica dominante. Disinteressandoci della visibilità mediatica e di una ricerca sfrenata del consenso e dei grandi numeri, abbiamo inteso i media non solo come un canale d’informazione, ma anche come un giocattolo per bambini mal costruito, una dolce fiaba raccontata da un vecchio analfabeta. Autart ha avuto la fortuna, ma anche la determinazione di affrontare il suo viaggio attraverso quelle pratiche che cercano di parlare di cose senza necessariamente darsi delle arie di saccenti noiosi. La componente ironica, lo spostamento continuo di significati e attenzioni, scardinavano automaticamente ogni genere di gerarchizzazione del sapere all’interno del gruppo, tendendo a non differenziare le conoscenze ma ad eccedere nella sua condivisione e renderle trasversali. Non si è riusciti però a mantenere appieno quella umiltà di linguaggio, sia verso l’interno che verso l’esterno del gruppo, che avrebbe potuto ridicolizzare maggiormente un inutile gioco di ruoli e di competenze.
Forse abbiamo fallito. Non abbiamo probabilmente penetrato così a fondo l’immaginario studentesco che ci proponevamo di contaminare, détournare e bombardare, e quasi sicuramente non siamo stati un punto di riferimento costante per gli studenti che, interessati o meno alla propria condizione, hanno cercato punti di contatto. Abbiamo scoperto invece che un pizzico di autoreferenzialità potesse significare più complicità e coesione interna e meno frustrazione nel fallimento. In fondo abbiamo solo cercato di essere quello che volevamo essere, di esprimere quello che avevamo intenzione di esprimere, di ridere di ciò su cui molti piangono, sfogliando gli obiettivi della militanza ottusa con fare distratto e disinteressato. Forse abbiamo fallito, o forse no.
Quel che è certo è che le pratiche rimangono. Quello che preoccupa invece, e che si è verificato, è lo scambiare le pratiche per strumenti, i nomi per marchi, le persone per reclute, intercambiabili o addirittura sostituibili, i desideri soggettivi per necessità oggettive, il tramonto per una nuova alba. La qualità delle relazioni in autart aveva a volte frantumato quel confine imprendibile e impercettibile che separa un relazionarsi personale da un relazionarsi politico. Questo illusorio confine una volta riemerso ha determinato l’inizio di un esasperato periodo di perdita sia immaginativa che umana. Nonostante autart abbia saputo per molto tempo dedicarsi alla valorizzazione dei ritmi e del sentito personale e reciproco, non ha colto il valore dell’autodeterminazione e ha preferito abbandonarsi a qualcosa che era fuori di esso, perdendo l’autonomia.
Sappiamo che il processo di decostruzione è pratica lenta, tessuta di vittorie e fallimenti, e necessita di spostarsi in altri terreni. Perciò ora accettiamo il rischio, per altri necessità, di perderci, di sciogliere questo irrigidimento nei confronti di un’identità che è divenuta stagnante e negativa, che manca di progettualità, di condivisione, di rispetto, di fiducia reciproca, e di un’affinità, un’identità che inesorabilmente scollata dai desideri, ha prodotto sordomuti.
I percorsi finiscono, a volte si evolvono, ma nulla si distrugge, tutto si trasforma e viene assorbito con diversi gradi d’intensità e di slancio emotivo. Coscienti di questo e della sibilante tensione verso l’esterno che autart ha covato e spesso concretizzato in collabor-azioni fuori dal contesto strettamente studentesco, ci auguriamo che questo scioglimento fluidifichi il nascere di nuove esperienze, pratiche e relazioni, che si armino di quella freschezza e sfrontatezza a nostro parere importanti per un cambiamento nello stanco immaginario movimentista e nell’intima capacità d’immaginazione delle persone . In questo sistema cannibalizzante abbiamo bisogno di desiderare altro, di costruire altri immaginari, e solo in questo caso il fallimento può assumere un potere rigenerativo.